domenica 24 gennaio 2021

REMEMBRANCE DAY 27.01.2021

 

In occasione della ricorrenza del Giorno della Memoria (27 gennaio 2021) si riporta di seguito la traduzione della testimonianza di Jakob Blankitny, cittadino polacco,  tratta dall’archivio del Museo della Memoria di Washington DC https://www.ushmm.org/remember/holocaust-reflections-testimonies/behind-every-name-a-story/jakob-blankitny (UNITED STATES HOLOCAUST MEMORIAL MUSEUM - 100 Raoul Wallenberg Place, SW, Washington, DC 20024-2126) e tradotta dallo scrivente.

LA STORIA DI JACOB

Vivevo a Makow Mazowiecki, a circa 80Km. Da Varsavia. L’invasione della Polonia da parte dei nazisti ha causato la nascita di ghetti e campi di lavori forzati, con le tremende persecuzioni degli ebrei. Coerente con i suoi trascorsi politici, la Germania, nel 1941, ruppe ogni patto con la Russia.

RITRATTO DI JAKOB BLANKITNY, DEI SUOI GENITORI E DI SUA SORELLA (circa 1928)

In due giorni i tedeschi occuparono la mia cittadina, utilizzando la sinagoga come quartier generale e distruggendo qualsiasi simbolo giudeo trovassero sul loro percorso. Ordinarono che gli ebrei fossero identificati da una Stella di David con la scritta “ebreo” appuntata al petto, in modo che fosse facilmente visibile. Dai campi di lavoro, gli ebrei furono trasportati ai ghetti e nei campi di concentramento. Nei ghetti il tifo, la malnutrizione e altre patologie devastavano la popolazione causando molte morti, in special modo fra gli anziani ed i bambini. Fu un miracolo se sopravvissi al tifo. Dopo due settimane iniziammo a spostarci con carretti contadini verso il ghetto di Mlawa, trovandolo vuoto in quanto tutti gli abitanti erano stati trasferiti ad Auschwitz. V’era una stazione ferroviaria. Attendemmo dieci giorni, lavorando a progetti di costruzione, prima di essere trasferiti. Gli anziani, le donne e i bambini, furono mandati a Treblinka. Dopo due giorni inizio’ il nostro trasferimento a Auschwitz: un viaggio terribile in condizioni disumane. Fra i miei peggiori ricordi, che mai dimentichero’, c’e’ l’immagine di mia madre che offriva i suoi favori ai soldati tedeschi in cambio di mezzo bicchiere d’acqua. Giungemmo al nostro tragico destino: un inferno, avevo solo 16 anni e, ancor oggi, percepisco l’eco dei pianti e delle pene sofferte da migliaia di persone in quel luogo. Appena arrivati fummo separati: uomini e donne. Presero le donne e le portarono direttamente alle camere a gas, dopodiche’ ai forni crematori – mia madre e mia sorella erano con loro. Che dolore vederle per l’ultima volta. Divisero quindi gli uomini in due gruppi, ed io e mio padre restammo uniti. D’improvviso, nel mezzo di quella situazione dantesca, sentimmo la voce familiare di mio zio, che ci invitava a muoverci verso di lui. Nel mezzo delle truppe di Polizia che circolavano con i loro cani irretiti, attraversammo la linea che ci destino’ a Auschwitz-Birkenau. L’altro gruppo fu trasferito immediatamente alle camere a gas. Il fumo dei forni crematori era visibile  per chilometri e chilometri tutt’intorno. Al nostro arrivo v’erano approssimativamente 6000 persone, ma solo a 200 fu permesso di entrare ad Auschwitz. Una volta dentro, fummo tatuati con numeri sulle braccia, e da quel momento, fu l’unico mezzo di riconoscimento; qualcosa che, oggi, ricorda incessantemente l’orrore vissuto mentre il mondo, sfortunatamente, non ascoltava il nostro pianto. Era inverno, e il freddo ci bruciava; tutto il campo era inondato d’acqua e pieno di fango. Presero i nostri vestiti invernali ed in cambio ci diedero dei simil pigiama molto leggeri. Col passare del tempo, avremmo visto attraverso quei panni l’estremo stato di malnutrizione e debolezza dei nostri corpi. Ci sistemarono in diverse baracche con tre cuccette, quattro persone per ogni letto, in totale dodici persone ogni baracca. La vita al campo iniziava alle cinque del mattino, quando ci davano caffe’ ed un pezzo di pane. Venivamo conteggiati come animali, per essere certi che nessuno mancasse. Venivamo percossi ed abusati costantemente, specialmente se qualcuno sfortunatamente cadeva o si riparava e cercava scampo dai duri colpi  ricevuti. Quelle percosse erano sferrate istantaneamente producendo  sui volti degli infami soldati delle SS grasse risate, particolarmente per il piacere di vedere l’orrore che provavamo. Lavoravamo fino alle sette di sera fuori dal campo e quando si tornava ci davano un piatto con un quarto di litro di zuppa. Fui fortunato a stazionare nella stessa baracca di mio padre. Uno fra i nostri primi progetti, fu quello di scavare canali per il deflusso dell’acqua.  Ogni sera tornando al campo, portavamo con noi quattro o cinque cadaveri, direttamente cremati nei forni. V’erano nuove selezioni periodiche, in cui , i piu’ deboli e malati venivano uccisi, e noi diventavamo ogni giorno sempre piu’ magri come scheletri. In una di quelle fatali selezioni, ci fu chiesto quale fosse il nostro lavoro da civili e, al mio turno, risposi che ero un carpentiere e mio padre disse che era  un muratore. Quella dichiarazione lo avrebbe condannato alla sua fine. Un giorno, tutti coloro che si dichiararono carpentieri, circa dieci persone, furono chiamati per un trasferimento. Fui costretto a salutare mio padre e lui mi disse le sue ultime parole:”Non ci vedremo piu’. Forse ti salverai ora che andrai altrove, ma io restero’ qui, mi daro’ come malato. Sebbene ti stia abbandonando, ricorda che hai l’obbligo verso te stesso di salvarti”. Questa fu l’ultima conversazione avuta con mio padre. Non l’avrei piu’ rivisto. Fummo trasportati circa a cinque chilometri  di distanza, ad Auschwitz 1, dove c’era un grande centro di lavorazione del legno.  Il comandante, vedendomi, chiese: “Chi Sei tu ? Sei troppo piccolo e debole per essere un carpentiere.”  Risposi: ”Sono un assistente carpentiere”,  e immediatamente ebbi un forte schiaffo in faccia, che mi fece cadere fuori  per terra . Fui dirottato ad un lavoro sulla ferrovia, uno dei peggiori esistenti. Eravamo costretti a scaricare vagoni, a caricarci sulle spalle enormi pesi. Oggi sarebbero scaricati con appositi ascensori,  ma non allora. Cosi’ fini’ il 1943. Durante questo periodo, in cui tutto appariva essere un terribile incubo e non realta’, contrassi una terribile infezione intestinale, e, come reazione al duro inverno polacco, i miei piedi erano  congelati con distacco parziale di carne e pelle dalle dita. Scolpivo vasche da bagno in legno e osavo sistemarmici dentro,  ritardando il rientro. All’esterno il capo aveva iniziato il conteggio delle persone, scoprendo che ne mancava una. Appena lasciata la vasca da bagno, ricevetti una percossa con un grande bastone, caddi per terra, quasi morto. Alcuni dei lavoratori  mi trasportarono al campo e mi lasciarono buttato contro il muro del mio isolato. Non potevo muovermi. Ho pensato fosse davvero la fine. Era notte quando i miei amici arrivarono e mi aiutarono a raggiungere la mia cuccetta. La mattina seguente mi portarono all’ospedale da campo dove fui curato da altri prigionieri, con apposite bende ai piedi. Restai li’ per tre giorni. Ad un certo momento giunse Josef Mengele (dottor Morte) per un’ispezione; divise alcuni fra i malati a sinistra ed alcuni a destra. Fui ancora una volta fortunato perche’ accorpato ad un gruppo di pazienti psichiatrici. Si seppe poi che l’altro gruppo sarebbe stato trasferito a Birkenau e condannato a morte. Coloro rimasti in ospedale percepivano che, nel caso di una seconda selezione, non sarebbero stati ugualmente fortunati. Incontrai il figlio del mio insegnante, quasi non riuscivo a riconoscerlo,  e lui riusci’ a malapena a farfugliare dicendomi: “Tu eri uno studente di mio padre, sei giovane e sopravviverai. Se vedi la mia famiglia, di’ loro che non vi riuscii.” Mori’ quello stesso giorno. Dopo una conversazione con uno dei medici, cercai di convincerlo a dimettermi, e lui, sapendo che una nuova selezione sarebbe arrivata di li’ a poco,  approvo’. Ancora debole per malnutrizione e zoppicante, riuscii a raggiungere il mio isolato dove i miei compagni di lavoro sembravano non riconoscermi. Il primo giorno di lavoro dopo il mio ritorno, lo spesi al campo. Un giorno fu diffuso l’ordine di reclutare gente per scolpire legname. Avendo acquisito tale abilita’ a scuola, osai offrirmi e mi presentai alle sette del mattino al punto d’incontro, che era di fronte la stessa torre dell’orologio del campo. Fummo tradotti a un campo chiamato D.A.V., dove c’erano laboratori di di carpenteria e metallurgici. Circa duecento prigionieri vi lavoravano. Col calore della fornace, ebbi l’opportunita’ di sanare i miei piedi. Il mio lavoro consisteva nel fabbricare cucchiai di legno, da spedire poi nei campi in Russia. Non se ne permetteva la fabbricazione in metallo, cosi’ che non fossero usati come armi. Dovevamo produrre una grande quantita’ ogni due settimane, ma io non vi riuscivo. Cosi’ fui espulso e spedito al campo, dove dovevamo caricarci pesanti tavole di legno e trasportarle alle varie officine, e quindi ritornare con scatole piene di segatura, molto faticose da trasportare per il loro peso eccessivo. Nella nostra mente erano  sempre presenti le brutali punizioni a bastonate se non fossimo stati sufficientemente veloci. Dal posto in cui erano posizionati i macchinari di falegnameria, furono reclutati tutti i polacchi riassegnandoli ad altri campi. Cosi’ al laboratorio non v’erano piu’ lavoratori che gestissero i macchinari. Il capo della falegnameria, un giovane polacco, d’improvviso mi vide e disse: ”Vieni qui. Come ti chiami ?” ed io risposi “Jakob Blankitny”. Mi porto’ presso la macchina sega-legno e me ne mostro’ il funzionamento solo una volta, dicendomi che, se avessi lavorato sufficientemente bene, avrei potuto rimanere li’. Rimasi in quel posto fino al 1945; sono ancora convinto che fu la mia salvezza. Il 18 gennaio 1945, i russi iniziarono ad avvivinarsi ad Auschwitz e i tedeschi ci fecero camminare per circa 90Km fino alla stazione di Leslau Quando lasciammo il campo, eravamo poche migliaia di persone,  ma solo la meta’ sopravvisse durante il tragitto. Molti furono uccisi per strada, altri rinunciarono morendo per l’impossibilita’ di mantenere il passo di marcia nella neve. Raggiunta la stazione, i tedeschi ci infilarono in vagoni ferroviari diretti a Mathausen. Meta’ delle persone in quei mezzi non resistettero al freddo e morirono congelati. Noi sopravvissuti fummo ancora trasportati, questa volta a Melk, dove lavorammo in miniere per le industrie belliche fino al 1945, quando fummo clandestinamente informati che le truppe americane si stavano avvicinando. Fu cosi’ che i tedeschi decisero di  spostarci al nord dell’Austria, in un campo di nome Ebensee. Lungo il tragitto alcuni prigionieri riuscirono a fuggire. Quando arrivammo il nostro gruppo era formato da circa venti persone. Fummo introdotti al campo e posti in fila per la fucilazione. In quello stesso istante, un comandante tedesco si avvicino’ e disse: “Non vale la pena ucciderli, non valgono neanche il prezzo di un proiettile. Non importa, moriranno nel campo.” Mangiavamo un pasto al giorno, che consisteva di una zuppa di bucce di patate, avanzi dei pasti delle SS. Ogni giorno vedevamo fra i 400 ed i 500 prigionieri morire. Il 4 maggio del 1945, le truppe americane erano molto vicine al campo. Era possibile ascoltare il rumore delle armi a distanza. Tutti i sopravvissuti furono ammassati e fu annunciato che il giorno seguente saremmo andati tutti nelle miniere dove lavoravamo, quale protezione dall’avvicinamento degli americani. Ma qualcuno ci  informo’ che era stato creato un progetto di uccisione di massa, incendiando le miniere piene di esplosivo. In quel momento c’erano circa diecimila persone lasciate nel campo. La gente si ribello’  e decise di non obbedire, cosi’ le SS, infrettolite dal tempo stringente e con l’intento di scappare, decisero di chiudere il campo con i prigionieri dentro e andare via. Le guardie civili arrivarono per prendersi cura di noi, finalmente, e la mattina seguente soldati americani con carri blindati giunsero a liberarci. Essere in grado di descrivere tutti i fatti di orrore e dolore che vissi, richiederebbe molte ore di ricordi e amarezze. Di tutta la gente della mia citta’, Makow Mazowiecki, dove ben 4000 ebrei vivevano prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, ne sopravvissero solo 42. Di tutta la mia famiglia rimasi l’unico superstite.

LA FIGLIA DI JAKOB BLANKITNY

54 anni dopo la liberazione di nostro padre, io e mia sorella insieme a lui, tornammo in tutti quei posti dove si manifesto’ l’orrore, la tragedia ed il destino fatale che coinvolsero milioni di persone. Persino dopo molti anni di sensazioni indescrivibili e negative, e’ semplicemente inesprimibile a parole cio’ che noi e mio padre provammo, visitando i campi di concentramento, o in quella lontana cittadina, Makow. Oggi non esistono piu’ tracce dell’esistenza di vigorose vite giudee, caratterizzate da usanze e calde tradizioni.

Guidonia Montecelio 24 gennaio 2021 - Mario R. Zampella


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